Come la capacità di leggere la complessità diventa una competenza strategica per la crescita delle persone e delle organizzazioni.
Ci sono dinamiche che attraversano le organizzazioni senza farsi notare.
Non si presentano con rumore, ma con piccole sfumature: parole dette in un certo tono, silenzi che cambiano il clima di una riunione, interpretazioni che lentamente si trasformano in convinzioni.
Il “giudizio” è una di queste.
Sottile, pervasivo, spesso inconsapevole.
Perché giudicare non è solo un atto, è un modo di vedere.
E quando si radica nella cultura di un gruppo, diventa una lente che deforma la realtà e rallenta la crescita.
Il giudizio come cultura silenziosa
Nel nostro lavoro con persone e team incontriamo spesso questo schema invisibile: il giudizio come abitudine, come stile di vita.
Si manifesta in ciò che manca, in ciò che non va, nei confronti tra chi “fa bene” e chi “sbaglia”.
Nelle parole di chi non ha mai tempo e per cui il prezzo è troppo caro.
È una cultura che nasce da una mentalità di scarsità — quella che mette l’attenzione su ciò che si perde, più che su ciò che si può costruire.
Chi è guidato dal giudizio pretende, da se stesso e dagli altri..
Il controllo diventa un modo per proteggersi, la rigidità un confine di sicurezza.
Eppure, questa stessa rigidità finisce per bloccare ciò che serve davvero nelle organizzazioni: il dialogo, la collaborazione, la fiducia.
Una storia che insegna a vedere
C’è stato un periodo in cui, in un team, più persone mi avevano segnalato disagio verso una collega che io percepivo come seria e rispettosa.
La definivano “troppo attenta”, “sempre pronta a sottolineare ciò che non funziona”.
Lei, invece, cercava in ogni modo di essere empatica, di migliorare la sua comunicazione, di avvicinarsi agli altri.
Non è stato subito chiaro dove il meccanismo si inceppasse, finché, durante una conversazione, mi raccontò di un collega che “non rispondeva mai” e “sbagliava spesso”.
Le sue parole erano misurate, pacate.
Eppure, finito l’incontro, mi accorsi di provare una leggera sfiducia verso quel collega — persona che conoscevo e stimavo.
Fu in quel momento che capii: non era tanto ciò che diceva, ma il modo in cui lo diceva a alimentare dubbio sull’intenzione, sospetto e infine, a generare distanze.
Il giudizio non era esplicito, ma passava attraverso il linguaggio, i toni, l’intenzione.
E, senza accorgersene, influenzava la percezione di chi la ascoltava.
Solo riconoscendo questo schema è stato possibile riportare equilibrio e comprensione nel gruppo, anche con i dirigenti che iniziavano a esserne coinvolti.
Leggere l’invisibile
La complessità delle organizzazioni non si trova nei processi, ma nelle relazioni.
È fatta di dettagli, di interpretazioni, di sfumature che cambiano significato a seconda dello sguardo con cui le si osserva.
Per questo, la competenza tecnica da sola non basta: serve la capacità di vedere.
Vedere non è un atto visivo, ma un esercizio di consapevolezza.
Significa ascoltare oltre le parole, cogliere le connessioni, restituire senso a ciò che appare disordinato.
È in questo spazio che si crea la differenza: quella tra chi “interviene sul problema” e chi lo comprende nella sua interezza.
Quando la comprensione sostituisce il giudizio
Ogni volta che, in un gruppo, qualcuno riesce a vedere ciò che prima restava nascosto, accade qualcosa di potente:
il clima cambia.
Le persone si parlano con più rispetto, il confronto torna a essere produttivo, la fiducia ricomincia a circolare.
In Distinctive Mark è qui che inizia la trasformazione:
non nel dire alle persone cosa devono fare, ma nel creare le condizioni affinchè possano vedersi – e riconoscersi – in modo nuovo.
Perché, in fondo, ciò che trasforma davvero non si impone.
Si riconosce.