Per tanto tempo la frase “miglioramento continuo” ha fatto parte del mio vocabolario, nelle conversazioni con gli altri, ma soprattutto con me stessa. Maturando ho capito quanto allora questa espressione condizionasse in maniera poco funzionale come mi sentivo.
Non capivo perché, ma mi creava ansia. Pensavo fosse motivante per me l’idea del miglioramento continuo. Per me che sono una persona ambiziosa e a cui piace crescere. Pensavo fosse una condicio sine qua non e tenevo duro. Invece, senza accorgermi, alimentavo il mio senso del dovere e di perfezione.
C’è sempre qualche cosa da migliorare. È proprio così?
Quando c’è qualche cosa da migliorare significa che c’è anche una mancanza, il presupposto è che il punto di partenza sia imperfetto.
E a chi piace sentirsi imperfetto, mancante, limitato?
Migliorare è la parola usata anche per intendere che qualche cosa così com’è non è ok. Se aggiungiamo anche il termine “continuo” il meccanismo mentale, per alcune persone, rischia di diventare pericoloso. La lettura che queste persone fanno è “da peggio=imperfetto, a meglio=perfetto”.
In uno schema che ricerca la perfezione, la ricerca non ha letteralmente mai fine. Perché non esiste qualche cosa che non sia perfettibile.
Qual è il tema?
Facciamoci questa domanda: ricordiamo l’unico errore nel compito da nove oppure il foglio pulito che racconta il merito di quel nove?
La nostra cultura è spesso imperniata dell’esperienza del voto e dell’uso della penna rossa che segna gli errori. L’abitudine di mettere a fuoco ciò che non va perchè c’è sempre da imparare, che, sommata a quella, spesso dichiarata, che il dieci che non si da perché c’è sempre da migliorare consolidano convinzioni di “dovere” e “sacrificio” che diventano pesi emotivi per molte persone.
Non è in discussione il darsi da fare di per sé, o l’impegnarsi anche duramente per raggiungere un obiettivo sfidante, ma come questo dire sia, per molti, limite e demotivazione.
Un argomento che è emerso anche quest’anno alle olimpiadi. Atleti che si sono allenati duramente, che non hanno raggiunto il podio per un soffio e che hanno scelto leggerezza emotiva di fronte al mancato successo. Nonostante questo, c’è chi ha criticato.
Ricerca di perfezione. Un tema sentito.
Secondo la mia esperienza di coach la ricerca della perfezione è uno degli aspetti più comuni da indagare e su cui lavorare.
Per chi ha orientamenti di pensiero e comportamenti da perfezionista, per chi ha poca autostima e tende a generalizzare, la convinzione che si può sempre migliorare non porta beneficio, ma alimenta frustrazione e ansia. Problemi che si riversano sul lavoro e nell’interazione con le altre persone.
Capire il meccanismo per andare oltre.
Il concetto di miglioramento funziona quando riferito ad un contesto e ad obiettivi specifici. Ad esempio di performance. Migliori perché hai un punto di apprendimento di partenza e hai un obiettivo di risultato. Puoi parametrare il tuo miglioramento su dati oggettivi e di risultato.
È un miglioramento che non riguarda nello specifico la persona, ma il fare o l’avere della persona, elementi esterni a sé.
Quando è un miglioramento riferito alla crescita della persona e esplicitato con termini generici, attiva un circuito di pensieri più o meno consapevoli e di azioni di non accettazione di sè e dei propri limiti, che diventa sforzo per colmare mancanze percepite a prescindere. Il presupposto in questo caso, mette in dubbio la persona e la sua identità più intima.
Faccio un esempio.
Se voglio stabilirmi in Francia per lavoro, il mio francese scolastico va migliorato. È questione di migliorare quella competenza che mi serve per poter raggiungere il mio obiettivo. Poi, sulla base di quanto mi servirà, stabilirò il livello, l’investimento e i tempi.
Viceversa, se ho intenzione di lavorare in Italia e non ho alcun bisogno oggi di sapere il francese, quel tipo di miglioramento non mi serve. Posso investire il mio tempo, le mie risorse e le mie energie in altro.
Questo tipo di ragionamento non fa sentire la persona deficitaria di qualche cosa, meno di qualcun altro, inadeguata.
Se la persona vuole migliorare ma non ha chiaro invece che cosa in particolare e soprattutto perché, il rischio è che i suoi pensieri vaghino alla ricerca di un motivo che diventa giudizio di sé e confronto a perdere con gli altri.
Ecco perché conoscere i meccanismi e gli impatti e usare con attenzione le parole sono apprendimenti necessari per una comunicazione efficace tra persone che vogliono crescere.
Feedback per maturare e per crescere
Ecco perché quando mi approccio allo sviluppo della leadership in coaching, preferisco sostituire il temine “migliorare” con il più adatto “maturare”. Credo che ciascuna persona sia “perfetta” per ciò che è oggi e che se sente il bisogno di crescere è perché sta maturando dentro sé nuove consapevolezze che hanno bisogno di emergere. Ha necessità di uno specchio che gli dia feedback che la aiutino a conoscersi e a stare sul binario nella sfida con se stessa.